Dissolvenze (opache), trasparenze e crisi di rappresentatività.
Verso nuovi modelli di rappresentanza (post-politica?) nell’era della de-medializzazione digitale.
di Alessandro Biamonte
(Proprietà riservata. E’ ammessa la riproduzione con indicazione della fonte e del nome dell’autore. Ogni altro abuso sarà perseguito. Si rappresenta che l’articolo è stato pubblicato sulla rivista Infiniti Mondi n. 4/2018 – ISSN 2532-8417)
Roland Barthes[1], nel riferirsi al dipinto di René Magritte “Ceci n’est pas une pipe”, afferma: «Per sua natura, la Fotografia… ha qualcosa di tautologico: nella foto, la pipa è sempre una pipa, inesorabilmente»[2]. La fotografia, pertanto è una «emanazione del referente»: sua essenza è la conservazione delle tracce quasi materiali del referente reale. Due realtà in perenne relazione tra loro contrassegnate «dalla medesima immobilità amorosa o funebre, proprio in seno al mondo in movimento»[3]. In questo modo, secondo l’autore, la fotografia si caratterizza per l’amore e la fedeltà al referente. Non più spazio di finzione manipolata, ma contesto di verità. La sua camera chiara ruota intorno alla fotografia invisibile di sua madre – ovverosia la custode della verità – nel giardino di inverno; madre, archetipo del referente, che si trasmuta nel suo doppio risvolto del lutto e della sua elaborazione.
L’avvento del digitale nella fotografia si proietta nel mondo dell’iper-reale. La fotografia digitale pone su di un piano differente, quanto meno in termini di dubbio, la relazione tra reale e referente, non rappresentando più nulla (quanto meno in termini dubitativi), ma presentando. Essa, in breve, non è esecutrice di una rappresentazione, ma espressione del sé – spesso inteso in termini egoici, disgregati dall’alterità –. Posto in questi termini, il rapporto di (dis)rappresentazione, può operarsi un parallelismo con la sfera politica, che oggi si è tradotta – almeno secondo il comune sentire – in una percezione autoreferenziale del sé (di qui la “liquidità” del termine di rappresentatività che muta rapidamente di forma e sostanza); cosicché quelli che erano esecutori delle masse rappresentate[4] non vengono più codificati dall’opinione pubblica come esecutori del “popolo”, ma espressione di un sistema autoreferenziale dal quale prendere le distanze.
Il Noi politico si disgrega e, a fronte di una crescita esponenziale di impronta narcisistica, può paradossalmente giungersi al punto di chiedersi – di fronte all’evoluzione verso la smart policy – a cosa servano[5] le elezioni, le campagne elettorali, il Parlamento, le ideologie, laddove in una democrazia digitale il tasto mi piace potrebbe sostituire la scheda elettorale: «A cosa servono oggi i partiti, quando ogni singolo è esso stesso in partito, quando le ideologie, che una volta costituivano un orizzonte politico, si disgregano in un’infinità di opinioni e opzioni individuali?»[6]. Di qui la chiosa interrogativa che assorbe in sé ogni dubbio: fino a che punto la democrazia è pensabile anche senza discorso?.
In questi termini il passaggio dallo smart mob alla shitshorm è breve, così come labile il suo confine[7].
L’individuazione del senso di rappresentanza si riconduce all’azione di rendere presente un’entità che, per varia ragione, è corporeamente assente[8]. In questi termini, il «rappresentare» individua quattro funzioni[9]: i) il riprodurre, ii) il fare presente (quale espressione del rendere “manifesto”), iii) il simboleggiare e iv) il sostituire. Categorie, queste, corrispondenti ai quattro differenti tipi di “rappresentanza” codificate dalla dottrina: descrittiva, degli interessi, simbolica e ascrittiva[10]. La perdita di questa dimensione costituisce il principale argomento su cui riflettere.
Ciascuno dei quattro tipi di rappresentanza e, dunque, le quattro differenti funzioni svolte da chi rappresenta, implicano, secondo lo schema già sopra indicato, una relazione tra il rappresentante e il rappresentato[11] che costituisce il risultato di una ineludibile verità: tanto la manifestazione, quanto la sostituzione implicano la possibilità che venga posto un essere un collegamento con ciò che è simboleggiato, sostituito, manifestato o riprodotto.
L’attuale momento storico, segnato da un progressivo incedere verso la de-medializzazione digitale della realtà – cioè dal distacco (reso possibile dal digitale) da un contesto caratterizzato dalla presenza di un medium analogico che funge da filtro, in direzione di un sistema di comunicazione simmetrica, rappresenta sicuramente il momento del definitivo distacco della rappresentazione dal referente reale. Si è in presenza di un reflusso comunicativo e politico che rivoluziona i tradizionali metodi.
E’ su questi temi che occorre concentrare l’analisi anche all’esito delle recenti consultazioni elettorali, in cui a essere dissolta è non già la rappresentanza, quanto la rappresentatività mediata dai partiti tradizionali che hanno dominato la scena politica degli ultimi decenni secondo moduli che il Corpo Elettorale – anch’esso organo costituzionale (spesso obliato, ma più vivo che mai) – ha ritenuto di espellere, in quanto ritenuti estranei al proprio sentire.
Secondo un punto di vista sempre più diffuso, siamo in presenza di un’era dominata dalla “post-politica”, naturale evoluzione di quella società del positivo, indotta dalla coercizione sistemica della “trasparenza”, talvolta basata sull’errore della rinuncia al senso dell’alterità, che ignora come, in realtà, non sia mai trasparente a se stesso (nella sua parte inconscia, si intende). Ciò è tanto più vero che, secondo Freud, l’Es rimane nascosto all’Io e quest’ultimo finisce con il negare ciò che l’inconscio afferma e illimitatamente desidera. In breve, l’Io non coincide con il sé e la frattura che impedisce all’Io di coincidere con il sé impedisce l’autotrasparenza. Questo senso di velata opacità rende viva la conoscenza e dunque il recupero della reciprocità rappresentativa: «Il semplice fatto della conoscenza assoluta, dell’aver esaurito psicologicamente il contenuto della personalità, ci disinganna anche senza un’ebbrezza precedente, paralizza la vita delle relazioni… la profondità feconda delle relazioni che dietro a ogni elemento ultimo rilevato intravvede e onora ancora un altro elemento più ultimo… è soltanto la ricompensa di quella delicatezza e di quel dominio di sé che anche nel rapporto più stretto, che coinvolge tutta la persona, rispetta ancora la proprietà privata interiore, la quale limita il diritto alla domanda con il diritto al segreto».[12]
Il medium digitale è un medium di presenza[13]. La comunicazione digitale si contraddistingue per il fatto che la produzione delle informazioni, così come il loro invio e la ricezione, avviene senza intermediari; pertanto mediazione, e, in pari modo, rappresentazione sono assimilate a mancanza di trasparenza, alla stregua di una sintesi di inefficienza indotta da ristagno di tempo e di informazioni.
Nulla di più superficiale, laddove non si inverta il senso dell’analisi e il medium digitale non si trasformi in uno strumento a sostegno della rappresentanza, alla luce della riscoperta del senso di reciproca alterità che deve caratterizzare la vita politico-economico-sociale del Paese e il rinnovato patto del cittadino con le Istituzioni rappresentative.
Viceversa, le teorie secondo cui la rappresentanza politica si sostanzia in un surrogato ideale della democrazia diretta[14] ed i singoli rappresentanti un medium per l’espressione di desideri, aspirazioni, decisioni del popolo[15], osteggiano l’idea dell’esistenza di interessi generali che non si identifichino con la pura mediazione tra differenti interessi particolari. I vincoli possono essere posti dagli elettori ai propri rappresentanti e il legame instaurato reciprocamente si caratterizzano per l’idea – da un lato – che i singoli deputati siano espressione esponenziale (e rappresentativa) di quella parte del popolo che li ha eletti oppure – dall’altro – che esista un mandato conferito dall’insieme degli elettori all’insieme degli eletti[16].
Pertanto, le elezioni non si risolvono nella mera scelta dei governanti, ma in manifestazione di volontà, aspirazioni e interessi da parte del popolo, che affida a taluni soggetti il mandato di esserne portatore, così da chiamarli a rivestirsi della responsabilità del buon uso del mandato conferito[17].
La nozione tradizionale della rappresentanza (che ritroviamo sintetizzata nella nostra Costituzione e che, nell’anniversario del suo settantesimo anno, siamo chiamati a riscoprire) si articola in un filone tripartito.
Il primo è quello di derivazione giacobina che afferma tout court la sovranità del popolo[18] come espressione della volontà espressa da una sua frazione, intesa come volontà di una parte del sovrano[19]. Pertanto i parlamentari assumono la veste di veri e propri mandatari del popolo e l’elezione si configura come momento essenziale del conferimento all’eletto di quella parte della sovranità popolare di cui è titolare il singolo elettore[20].
Il secondo individua la sua fonte nella tesi della scuola pluralista, secondo cui le elezioni avrebbero il fine di garantire la rispondenza tra il popolo nelle sue differenti articolazioni e i suoi rappresentanti. Ciò implica che gli eletti si conformino agli interessi degli elettori, si conformino alle tendenze (anche spirituali) degli stessi, attuandone la volontà, sino al punto di esserne “responsivi”[21].
Entrambe le impostazioni confluiscono nella tesi per cui rappresentanza politica ed elezione si uniscono in un inscindibile legame: un organo è rappresentativo in quanto elettivo e, in quanto tale, deve attuare le aspirazioni teleologicamente spirituali e la reale volontà del popolo; in tale contesto, negli ordinamenti in cui vi è un organo assembleare con funzioni legislative, vi è Governo rappresentativo.
L’ordinamento costituzionale italiano è sintesi degli orientamenti esposti: esso contempla, infatti, sia norme finalizzate a garantire l’autonomia del singolo rappresentanza (iscrivendosi nel perimetro della rappresentanza politica espressione di rappresentatività), al pari di precetti che, con il fine di preservare il rapporto rappresentanti-rappresentati, disciplinano le modalità della sua estrinsecazione. Pertanto, al di là dell’ampio ventaglio di fattispecie costituzionalmente rilevanti (dal divieto di mandato imperativo – oggi posto in crisi dall’opinione pubblica – tutelato dall’art, 67 Cost., passando per l’insindacabilità delle opinioni e dei voti espressi – art. 68 Cost. – sino al riconoscimento solenne della sovranità popolare che appartiene al popolo – art. 1 – ), è immanente all’ambito delineato dal Costituente la nozione di popolo intesa come «popolo reale», composto da singoli cittadini, uguali tra loro e titolari di diritti inviolabili, in quanto tali partecipi di una frazione di sovranità, da fare valere e preservare anche nei confronti della comunità ordinata
Alla luce della situazione attuale, l’affermazione di una nozione di trasparenza vissuta nel mondo digitale (caratterizzato da comunicazione simmetrica) ha indotto a parlare di evoluzione verso la post – politica, dove totalmente trasparente è solamente lo spazio depoliticizzato[22].
Sennonché, trasparenza e verità sono realtà differenti, tutt’altro che identiche; la verità diviene negatività finché si impone e svela l’alterità, ovverosia l’Altro, come falso. Questo perché l’accumulo di informazioni, non dando origine a una verità, manca di senso, poiché priva di direzione.
Nella società della trasparenza così intesa (alla stregua del panopticon di Bentham – oggi «panottico digitale») non si costituisce, dunque, più una comunità, dando luogo, piuttosto, a molteplicità causali di isolati individui, ego che perseguono un interesse comune o si riuniscono tra loro come brand communities; gruppi, questi, ben distinti dalle assemblee – le uniche capaci di noi – , in quanto manca loro lo spirito[23]. La perdita di rappresentanza passa di qui e si accompagna alla perdita di memoria, dove l’eccesso di positività trasmuta il processo mnestico in un’azione meramente additiva[24] (in cui si smarrisce narratività e rielaborazione), analogamente all’esercizio della memoria informatica che salva dati uguali a se stessi.
La tendenza alla demedializzazione investe oggi anche la Politica e pone in difficoltà la democrazia rappresentativa tradizionale. I rappresentanti politici si attestano come barriere, più che come trasmettitori. Pertanto, la spinta verso la de-medializzazione si esprime come richiesta di partecipazione e trasparenza: l’obbligo di presenza – indotto dal medium digitale – pone così in crisi il principio universale di rappresentanza. Da sola, però, non è in grado di accedere al totalmente Altro, perché priva di spirito. E il medium dello spirito è il silenzio o, quanto, meno la rielaborazione della reciprocità (oggi rotta dal frastuono di una memoria meramente additiva – secondo lo schema digitale – ). E’ da qui che occorre ripartire.
[i] Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, trad. it. di R. Guidieri, Torino 2003, p. 7.
[2] Roland Barthes, op. cit., pp. 7 ss.
[3] Roland Barthes, op. cit., p. 7.
[4] Gustave Le Bon, Psicologia delle folle, Milano, 2004.
[5] Così Byung Chul Han, Nello sciame, Milano, 2016, p. 83.
[6] Byung Chul Han, op. cit., p. 83.
[7] Sul punto cfr. Alessandro Biamonte, Internet of things (IoT). L’opacità dei nuovi spettri nell’era della trasparenza digitale, in Infiniti mondi n. 3/2017, p. 83 ss.
[8] Sul nesso rappresentazione-raffigurazione-coscienza v. Hans Georg Gadamer, Verità e metodo, trad. it. a cura di Gianni Vattimo, Milano, 1983.
[9] Gerhard Leibholz, La rappresentazione nella democrazia, Milano, 1989.
[10] A. Phillips Griffiths, Aristotelian Society Supplementary Volume, Volume 34, Issue 1, 10 July 1960, pp. 187-224, https://doi.org/10.1093/aristoteliansupp/34.1.187.
[11] Il rapporto è ancora più evidente tra simbolo ed entità simboleggiata, oppure tra significante e significato – al pari della relazione tra tela pittorica e realtà riprodotta, oppure tra fotografia e immagine impressa.
[12] Georg Simmel, Sociologia, trad. it. di G. Giornano, Torino, 1198, pp. 308 – 309.
[13] Byung Chul Han, Nello sciame, Milano, p. 29
[14] Hans Kelsen, Il primato del Parlamento, Milano, 1984, p. 24 ss.
[15] Cfr. Carlo Esposito, La rappresentanza istituzionale, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, I, Padova, Cedam, 1939, p. 303 ss.: il rappresentato non esiste come soggetto di diritto prima della rappresentanza che, con un processo creatore e identificatore – non necessariamente elettivo – di una realtà ideale, attribuisce identità. Essendo questa la funzione delle istituzioni rappresentative, cioè di dare corpo a una entità solo ideale che esiste giuridicamente proprio per il fatto dell’esistenza di un’istituzione rappresentativa, Esposito afferma il carattere istituzionale della rappresentanza politica: ogni rappresentanza politica è insomma una rappresentanza istituzionale, altrimenti non è.
[16] Léon Duguit, L’Etat, Le Droit Objectif e la Loi Positive, Parigi, 1901.
[17] Giovanni Sartori, La rappresentanza politica, in Studi Politici, Milano, 1957, p. 580. Mario Galizia, Nomina e fiducia. Il Presidente della Repubblica e la formazione del governo, in Nuova Rassegna di Diritto, Giurisprudenza, Legislazione, 1954, p. 1002.
[18] Art. 25 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (preambolo della Costituzione francese del 1793): «La sovranità risiede nel Popolo; essa è una e indivisibile, imprescrittibile e inalienabile».
[19] Art. 26 della Dichiarazione: «Nessuna frazione del popolo può esercitare il potere del popolo intero; ma ogni sezione del Sovrano riunita in Assemblea deve godere del diritto di esprimere la sua volontà con una completa libertà»
[20] Raymond Carré de Malberg, La loi, expression de la volonte générale, Parigi, 1984.
[21] Sulla nozione di “responsiviness” cfr. Hannah Pitkin, I due volti della rappresentanza, Berkley, 1967.
[22] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, Milano, 2000, p. 273: «E’ già dato il concetto di spirito: Io che è Noi e Noi che è Io».
[23] Sull’additività del processo psichico cfr. Sigmund Freud, Le origini della psicoanalisi., Torino, 1961, p. 149: «Come sai, sto lavorando all’ipotesi che il nostro meccanismo psichico si sia formato mediante un processo di stratificazione: il materiale presente sotto forma di tracce mnemoniche è di tanto in tanto sottoposto a una nuova sistemazione in accordo con gli avvenimenti recenti, così come si riscrive un lavoro. Ciò che è essenzialmente nuovo nella mia teoria è la tesi che la memoria non sia presente in forma univoca ma molteplice e che venga codificata in diverse specie di segni».